Non ci distraiamo, c’è ancora troppo da fare

Vorrei avere un euro per ogni volta che è stato nominato Silvio Berlusconi negli ultimi sette giorni.

Non si parla d’altro. E’ bastata una dichiarazione dell’ex Presidente del Consiglio per sconvolgere gli equilibri non solo italiani ma, a quanto sembra, anche europei (vedi lo Spread!). Solo un’affermazione (nemmeno troppo convincente a dire il vero)  per ripiombare nell’Italia degli anni ’90, quella dei riflettori puntati esclusivamente su di Lui. Solo un'”uscita”, per far dimenticare a noi operatori della comunicazione i problemi reali che si accingono a togliere il respiro alle nuove generazioni. Mi riferisco alla mancanza di crescita e di lavoro che, se non ce ne siamo accorti, sono ancora lì…

C’è da distribuire il reddito in maniera più adeguata, concedere maggiori opportunità a chi si trova in una condizione economica disagiata, eccetera eccetera…

Tanto per cominciare, il peso fiscale! La tassazione va ben oltre il 50% scoraggia il lavoro e gli investimenti, spinge gli imprenditori all’estero, allontana potenziali investitori e riducono l’occupazione. Nonostante il nostro costo del lavoro per unità di prodotto sia più alto, i salari che ci portiamo effettivamente a casa risultano più bassi (e non di poco) della media europea. In tal senso, il recupero dell’evasione non è un buon motivo per alimentare a dismisura una spesa pubblica inefficiente. Aliquote più basse incoraggerebbero il lavoro e l’investimento, e servizi pagati almeno quanto costano indurrebbero i cittadini ad esigere che la qualità di ciò che ricevono corrisponda a quanto pagano.

Riguardo la distribuzione del reddito, molteplici sono i settori che ne evidenziano la macroscopica iniquità, tra questi c’è quello universitario. Essa, di fatto gratuita, genera ogni anno un trasferimento di circa 2,5 miliardi di euro dalle famiglie con un reddito inferiore ai 4o mila euro a quelle con reddito superiore. Borse di studio per i meno abbienti e meritevoli, finanziate dalle rette dei più ricchi, rappresentano la modalità più proficua per garantire il diritto allo studio.

Misurare il reddito non basta… Chi ricorda l’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente)? Trattasi di uno strumento nato nel 1998 che combina reddito e patrimonio, valutati a livello familiare e che già viene usato per stabilire l’accesso e il grado di compartecipazione ai costi per alcune prestazioni sociali. Ma l’applicazione rimane limitata e ci sono molti problemi, inclusa un’ampia area di elusione. A suo tempo, Il Governo Monti ne aveva annunciato la riforma, che è poi finita per arenarsi come tante altre dormienti nel pensatoio della Repubblica.

Un ultimo tema che mi preme accennare è la flessibilità del mercato del lavoro. Le rivolte degli ultimi anni portate avanti dagli ormai stremati lavoratori ci rimandano al concetto secondo cui più flessibilità significhi meno occupazione. Tale aberrata interpretazione è valida solo lungo lo Stivale. Se usciamo dai confini nazionali, infatti, e volgiamo lo sguardo a settentrione ad esempio, riscontriamo una situazione diametralmente opposta. La flessibilità nella gestione dei lavoratori genera più produttività e di conseguenza salari più elevati. L’inoccupazione è più bassa che nei Paesi dove le leggi impediscono la flessibilità. La temporanea disoccupazione dovrebbe essere affrontata con strumenti che proteggono il lavoratore, non il “posto”.

Ciò dimostra che non basta attuare le riforme, c’è anche bisogno di concretizzarle nella maniera più sana per i cittadini, senza snaturarne i contenuti e, in taluni casi, estrapolarne gli aspetti peggiorativi.

Dalle nostre parti accade proprio questo…

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