“‘A voce d’e creature”: Don Luigi Merola getta il seme della rinascita

di Claudio Dominech

Don Luigi Merola, sacerdote dal 1997, ha fatto della lotta alla camorra la sua ragione di vita, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “prete anticamorra”.
Don Luigi ha scelto di opporsi alla prepotenza con l’amore, le opere concrete, il rifiuto dell’omertà e l’impegno solidale, soprattutto verso i più giovani. Ha vissuto per anni nel quartiere di Forcella a Napoli, il rione del clan Giuliano.

Grande uomo prima che sacerdote, è divenuto ben presto un’icona per i giovani che vedono in lui un esempio da seguire ed imitare. In molti hanno ritrovato in lui la speranza di una rinascita a 360 gradi, dunque morale, culturale, lavorativa e, naturalmente spirituale.
La sua opera ha fatto clamore ovunque, tanto da essere chiamato nel 2007 a Roma, dove il Ministero dell’istruzione gli assegnava un incarico di studio per la promozione della legalità nelle scuole. Per Don Luigi il tempio della legalità è, infatti, la scuola perché è solo attraverso l’educazione che può formarsi un cittadino onesto. E’ proprio dallo studio che nasce la sua “rivoluzione”.
Da questo principio ha realizzato la fondazione ONLUS ” ‘A voce d’e creature” con lo scopo di salvare i ragazzi a rischio, in particolare quelli che si sono allontanati dalla scuola, sottraendoli alla strada per reinserirli nel percorso scolastico. La fondazione è frequentata da circa ottanta ragazzi, tra i sei e i quindici anni, mentre molti altri si trovano nella sezione distaccata tra Pompei e Castellammare. Sono impegnati in lezioni di recupero, partecipano a laboratori musicali e teatrali, seguono corsi di formazione e lavoro. Lo scopo è quello di offrirgli opportunità di un lavoro futuro attraverso la formazione e l’insegnamento di un mestiere. Qui, vengono inoltre organizzati corsi di vela e di nuoto al fine di insegnare ai ragazzi ad amare il mare e la propria città, Napoli.
Da sempre, Don Luigi recluta giovani volontari che, con pazienza, amore e professionalità, prestano servizio a titolo gratuito, portando avanti solo con i fondi del 5 per mille una fondazione che, in brevissimo tempo, ha cominciato ad estendersi in tutt’Italia, con le sezioni di Pompei e Castellammare, fino a Salerno e Verona.
Già all’età di tredici anni ha capito che sarebbe diventato prete, ammirando l’opera dei sacerdoti africani e quella dei parroci a lui più vicini. Già allora bramoso di intraprendere la strada che oggi persegue e difende strenuamente. A quei tempi non immaginava neppure lontanamente, però, che un giorno non molto lontano, e con precisione il 23 marzo 2010, avrebbe avuto la soddisfazione di essere nominato consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. Secondo Don Luigi Merola si può fare tanto per cambiare le cose, innanzitutto combattere l’omertà ed agire attraverso opere concrete che offrano ai giovani delle alternative valide in cui credere. Solo in questo modo, afferma il prete più importante d’Italia, si può arginare e distruggere, a piccoli passi, il “cancro” che rovina la nostra società.
Don Luigi condivide pienamente le direttive del Cardinale Crescenzio Sepe sul rifiuto dei parroci di impartire i sacramenti ai camorristi in quanto ciò necessario al per non creare confusione nei credenti: “Il male è male e sarà male per sempre ed è necessaria l’ostilità nei confronti di chi si pone contro gli insegnamenti di Cristo”. Inoltre, il parroco è anche scrittore, ma la sua attività non ha scopo di lucro. Essa, infatti, è fonte di sostentamento per “‘A voce d’e creature”. Di recente, grazie agli introiti è stato creato un campo di calcetto nel quartiere Arenaccia, sul terreno dove una volta il boss Brancaccio teneva custodito il suo leone, dando un’oppurtunità in più a tanti ragazzi, per avvicinarli alla fondazione di recupero minorile che sorge proprio in questo posto. Tutto ciò riserva anche un significato simbolico, dove i cittadini partenopei reagiscono alla camorra, dando soprattutto voce a bambini disagiati.
Egli è fermamente convinto che le cose possano cambiare. Ciò può accadere, però, solo se si lavora tutti insieme nella stessa direzione: “Non è il solista che salverà Napoli ma il coro – sottolinea il temerario parroco. La paura è umana ma bisogna combatterla e superarla. Con il sorriso dei bambini, che infonde forza e gioia, è più facile andare avanti”.

(“Roma”)

Una politica da Primati…

Il direttore

Claudio Dominech

Nei giorni che precedono le elezioni amministrative 2011, quelle cioè che decideranno il futuro di tutti i napoletani per i prossimi cinque anni, stiamo tutti assistendo ad un pericoloso “inquinamento da volti”.

Chi di noi, passeggiando per le strade della città, non ha avuto modo di osservare le miriadi di facce anonime rappresentate nei manifesti elettorali? Chi sono queste persone? Da dove vengono? Di cosa si occupano? Ma, soprattutto, dov’erano fino a qualche settimana fa?

Si tratta di personaggi provenienti dai settori più disparati: imprenditori, avvocati, commercialisti, commercianti. Ma anche nullafacenti, perdigiorno in cerca di nuovi stimoli, coloratissimi elementi della mondanità di casa nostra, esuberanti frequentatori di bar e “baretti” dall’inseparabile bicchiere alla mano, semplici studenti che non sono mai usciti dal mondo di zucchero filato che è quello accademico, vampiri che vivono il quotidiano solo se muniti del loro “sangue bianco”; senza trascurare i figli di quei papà che si prodigano tanto nei settori sopra indicati.

Miei cari addetti ai (presunti) lavori, sono decenni che vi appellate alla “serietà” come condizione imprescindibile per una corretta amministrazione della cosa pubblica. Ma cosa vuol dire per voi questa parola di cui tanto abusate nei comizi, incontri o talk show vari?

E’ uno dei momenti più difficili della nostra storia. La gente, i giovani vi chiedono un impegno reale per Napoli, un programma produttivo e la sua applicazione (stavolta!), degli amministratori che conoscano la politica locale e siano disposti ad applicarla. Insomma, fattori sostanziali che puntino ad una rinascita in tempi ragionevoli. Solo in questo modo potremo iniziare a riparlare di “serietà”.

Dal canto vostro, continuate a proporci elementi presi a caso dalla società civile, che mai hanno avuto a che fare con la politica. Inclassificabili, che ignorano le esigenze del territorio, figuriamoci gli espedienti tesi a migliorarlo. Personaggi, il cui unico obiettivo resta quello di riceverne privilegi per sé e i propri cari. Attori, impegnati in uno sfoggio autoreferenziale di personalità fasulla.

Il fenomeno si presenta a dir poco raccapricciante se pensiamo che saranno proprio questi a decidere per la nostra vita. La folkloristica campagna elettorale che stiamo vedendo è la rappresentazione stessa della decadenza della vera classe politica, quella a cui erano abituati i nostri predecessori; una commistione tra dirigenza amministrativa e società civile ad esclusivo detrimento della prima; una spettacolarizzazione della società in crisi, un “Grande Fratello” della politica in cui non si discute dei problemi ma si esaltano i personaggi candidati ad acuirli.

E’ vero, la stagione delle ideologie resterà nella nostra memoria solo come un bel racconto e, considerata la portata modernizzatrice esistente oggi in qualunque contesto, è naturale che sia così. Ma la cultura è alla base di ogni cosa e va preservata. Senza di essa la politica si conferma un gioco distruttivo in cui l’unica regola è la degenerazione del personalismo, come quello cui stiamo assistendo in questi giorni e che pagheremo a caro prezzo.

P.s.

“OutNoW” è pronta a fornire qualsiasi chiarimento a chiunque si sentisse direttamente chiamato in causa dai contenuti del nostro manifesto.

(“OutNoW.it”)

Rinnovabili al tracollo, obiettivi disattesi: le nuove generazioni verso l’asfissia

Il direttore

Claudio Dominech

Ci avevano creduto fino alla fine i sostenitori della green economy, tra addetti ai lavori, associazioni ambientaliste e liberi cittadini, ad un sostegno concreto da parte del Governo. E, invece, rimarranno delusi perché il Consiglio dei Ministri ha deciso di rivedere al ribasso gli incentivi destinati all’energia fotovoltaica sgomberando, così, il campo da possibili ripensamenti annunciati meno di un anno fa dal Ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Romani.

Parliamo di un decreto, quello sulle energie rinnovabili, contenuto nel cosiddetto pacchetto “Milleproroghe”, che allontana sempre più l’obiettivo, fissato dall’Unione Europea, di portare al 17% il totale dei consumi energetici prodotti con fonti pulite entro il 2020 e che mette a serio rischio il futuro dell’energia pulita.

A nulla sono valse le mobilitazioni promosse da Wwf, Legambiente, Assoambiente ed altre associazioni ambientaliste, così come vani si sono rivelati i tentativi da parte del Ministro dell’Ambente, Stefania Prestigiacomo, di ottenere fondi necessari ad ossigenare il suo settore d’interesse.

Il nuovo provvedimento, elaborato di concerto tra i due ministeri in questione, in vigore dal 1 giugno di quest’anno, prevede l’eliminazione della soglia di 8 mila megawatt di potenza installata fino al 2020 (questo il punto più sensibile della trattativa Governo – Associazioni), perché giudicata insufficiente rispetto alla crescita esponenziale dei MW installati negli ultimi mesi.

Per quanto concerne l’eolico, il taglio retroattivo degli incentivi, applicati attraverso il meccanismo dei certificati verdi (titoli del valore di 80 euro a megawattora, acquistabili e vendibili alla borsa elettronica), viene fissato al 22% anziché al 30% come previsto nella versione originale.

Altre novità sono state introdotte per la realizzazione di impianti su terreni agricoli. Si potrà produrre, infatti, fino a 1 megawatt di energia fotovoltaica utilizzando per gli impianti di produzione non più del 10% del terreno coltivabile.

Tutte misure migliorative, insomma, ma non sostanziali per il sostegno e lo sviluppo dell’energia rinnovabile in Italia.

Tagliare le gambe all’industria della green economy non vuol dire soltanto reprimere un intero comparto economico che produce ricchezza nel nostro paese ma anche arrestare, d’impulso, il progresso tecnologico e la ricerca ad esso collegati. Fattori paradigmatici per la sopravvivenza dell’ecosistema ospitante.

Un ambiente già duramente provato su scala nazionale e internazionale considerato, ad esempio, che l’atmosfera terrestre è congestionata da 3 milioni di megatonnellate di CO2. Di queste, 6.000 sono immesse direttamente dall’uomo e, per l’esattezza, 3.000 nei paesi industrializzati e altre 3.000 da quelli in via di sviluppo.

Alla luce di quanto detto viene da pensare: “Ma questi non erano gli anni in cui si era finalmente presa coscienza che il pianeta è intossicato dall’inquinamento e che, dunque, dovevamo salvarlo prima che fosse troppo tardi? I governi non si erano prefissati l’obiettivo di salvaguardare l’ambiente ad ogni costo, pena la fine di tutto? Che fine ha fatto, allora, quel famoso protocollo ratificato a Kyoto da più di 160 paesi che prevede l’obbligo, in capo ai paesi industrializzati, di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti (biossido ed altri cinque gas serra), nella misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, nel periodo 2008 – 2012? E, a questo proposito, si sa nulla dei provvedimenti presi dalle nazioni aderenti? A che punto siamo col rispetto dei parametri obbligatori? Di queste cose non si parla mai e gli organi di stampa fanno orecchie da mercante, ma… ce le ricordiamo?”.

Oggi facciamo finta di no però, di certo, le future generazioni se ne ricorderanno bene, quando non avranno più aria da respirare.

(“OutNoW.it”)

 

Rivoluzione in maghreb: l’esempio del vicino di casa

Il direttore

Claudio Dominech

Il Maghreb sta vivendo la crisi più profonda della sua storia. Denunce, scontri e manifestazioni di piazza continuano a perpetrarsi in una reazione a catena che interessa tutti i principali paesi del Mediterraneo.

Povertà, disoccupazione e corruzione sono le cause note.

Tutto è cominciato agli inizi di gennaio, in Algeria, dove il popolo è sceso in piazza per protestare contro gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, previsti dal governo locale. “La rivolta del pane”, com’è stata definita, rappresenta la vera scintilla della rivoluzione nordafricana.

Solo pochi giorni dopo, in segno di protesta contro la crisi economica, un 26enne venditore ambulante si è dato fuoco dinnanzi al Governatorato di Sidi Bouzid, in Tunisia, aprendo la strada per la rivolta di un’intera popolazione contro il governo imperante. In poche ore tutte le maggiori piazze del paese si sono riempite di centinaia di migliaia di giovani manifestanti che hanno chiesto e ottenuto la destituzione del presidente Ben Alì, costretto alla fuga assieme alla sua famiglia.

In una manciata di giorni anche l’Egitto, è piombato nel caos e il 1° febbraio è stato letteralmente preso d’assedio dai cittadini. Piazza Tahrir, al Cairo, ha registrato in un sol giorno circa un milione di manifestanti divenendo, stavolta de facto, la “Piazza della Liberazione”. Il 4 febbraio, “venerdì della partenza”, il movimento rivoluzionario ha ottenuto l’uscita di scena di Mubarak e il passaggio dei poteri all’esercito.

Nel frattempo, il clima incandescente ha fatto precipitare la situazione investendo l’intero scacchiere maghrebino.

All’Algeria e alla Tunisia è seguito il paese a noi più vicino, in termini affaristici, la Libia. Qui la popolazione si è ribellata al leader più longevo d’Africa, Gheddafi, per mettere fine a un sistema repressivo e corrotto endemico da 42 anni. Attualmente per le strade di Tripoli l’esercito spara all’impazzata sulla folla e ha già provocato più di diecimila morti.

Sulla riva opposta del Mediterraneo, a casa nostra, ci raccontiamo che la situazione è diversa, che c’è la democrazia e che eventi di questo tipo ci sono completamente estranei. Ma, forse, osservata meno superficialmente, analizzata nella sua sostanza e considerando le differenze culturali che sussistono, la nostra realtà non è poi così diversa dalla loro.

A detta di stimati sociologi viviamo il momento più difficile della nostra storia. Tralascerei la maggior parte dei numeri che riconducono a questa crisi globale per riportarne un paio di significativi: il tasso di disoccupazione tra i giovani sfiora il 30% ed è il più elevato dal 2004.

Questo dato, associato a una serie di altri fattori ruotano intorno al mondo del lavoro in Italia come la leggerezza della busta paga in rapporto al costo della vita, il nepotismo dilagante o la gerontocrazia, pone le basi per una vera crisi sociale.

A poche miglia di distanza è in atto una guerra civile epocale causata da governi dittatoriali che, per fini personali, hanno generato disoccupazione, povertà, oppressione sociale, riducendo così allo stremo intere popolazioni. Oggi, questa gente ha trovato la forza di reagire per riconquistare una libertà che sembrava dimenticata, all’estremo sacrificio della vita. Può riuscirci? Non lo sappiamo. Certo, la riconquista di Bengasi può considerarsi un risultato positivo, ma non basta. C’è bisogno che il seme della speranza appena gettato produca i suoi frutti.

Dalle nostre parti non si parla né di guerre né di dittatura, ma anche noi stiamo perdendo la nostra libertà. La libertà di creare basi solide per costruire il futuro, di ottenere un lavoro senza elemosinarlo o comprarlo, di riuscire a guardare in prospettiva prima di compiere 50 anni.

Anche noi abbiamo qualcosa da riconquistare e forse dovremo trarre insegnamento dai nostri vicini di casa.

(“OutNoW.it”)

NEL 2010 I PIRATI FANNO ANCORA PAURA

Il direttore

Claudio Dominech

22.400 posti di lavoro bruciati, 1,4 miliardi di euro persi. Sono le cifre raccapriccianti che ha fatto registrare la pratica della pirateria, nei settori del cinema, delle serie tv e della musica. E questo solo per rimanere in Italia, perché se ci spostiamo fuori dai confini nazionali i numeri si moltiplicano esponenzialmente.

Secondo uno studio, infatti, le industrie creative hanno contribuito per il 6,9% o circa 860 miliardi di euro al Pil dell’Unione Europea, con una quota del 6,5% dell’occupazione, pari a circa 14 milioni di lavoratori.

In assenza di cambiamenti significativi nelle politiche governative, considerata la crescita delle perdite legate alla pirateria, si prevede che i posti di lavoro persi annualmente siano definitivi. La perdita secca per l’Unione Europea sarebbe di circa 610 mila unità entro il 2015.

Lo streaming online sta affievolendo quel barlume di speranza di uscire da una crisi, che sembra sempre più pressante e che continua a prosciugare le già limitate possibilità d’inserimento in quei settori lavorativi considerati “creativi”.

Soffermiamoci sulla musica: l’industria ha oggi una risposta in nuovi modelli distributivi, tipo iTunes, ma resta un competitor senza regole. L’alternativa illecita, con punte fino al 95% della musica distribuita sulle reti digitali è la grande incognita nel futuro sviluppo dei media. Se i governi non si impegneranno, il mercato non potrà consolidarsi. La musica è stata la prima a trovarsi di fronte alla diffusione senza regole che sta colpendo oggi anche altri settori. Spesso si afferma che internet deve essere libero, che l’accesso all’informazione deve essere salvaguardato, che tutti devono poter esprimere il proprio pensiero. Questo è corretto, ma non può trovare giustificazione nell’abuso di tali diritti. Non è censura quando un giudice «spegne» o limita l’accesso ad un sito che offre musica o film illegalmente.

Alla luce di un simile dramma, i vari paesi dell’Unione stanno cercando di ridurre l’impatto, ognuno con una strategia diversa.

Ad esempio, In Francia è stata adottata una normativa che mette al primo posto la tutela della cultura rispetto al diritto di accedere indiscriminatamente ai contenuti, fino a giungere alla privazione di internet per coloro che scambiano contenuti illeciti.

Nel Regno Unito, invece, il «Digital Economy Bill», oltre ad una politica per la diffusione di internet tra i cittadini, detta le regole per combattere la pirateria. I dati sui posti di lavoro persi nel settore creativo per la pirateria sono solo la faccia più drammatica, quella sociale, dei danni. Ma ve ne è un’altra: la riduzione degli investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi talenti.

Insomma, un tempo la pirateria rappresentava l’incubo dei marinai perché sottraeva loro merci e, talvolta, vite umane. Oggi in ballo c’è un altro tipo di bottino, si chiama occupazione, ma sembra destare la stessa angoscia.

(“OutNoW.it”)

 

E’ nata la testata giornalistica online, ‘OutNoW’

Il direttore

Claudio Dominech

La testata giornalistica ‘OutNow’, costola dell’omonima associazione culturale, è uno strumento rivolto a tutti quei giovani stanchi di subire passivamente gli effetti di una crisi sociale, prima che economica, divenuta ormai asfissiante. Estraneo a logiche partitiche, il settimanale rivolge uno sguardo attento ai bisogni della comunità giovanile, alle problematiche che, in maniera trasparente o velata, ne condizionano la libertà e alle dinamiche malsane responsabili di mortificare la crescita delle nuove generazioni, il cui futuro resta seriamente a rischio.

Alla strenua ricerca della verità, ogni venerdì ‘OutNow’ passa in rassegna articoli sugli argomenti che li riguardano più da vicino: dalla cronaca alla cultura passando per la politica. Per riuscire nell’intento, la redazione lavora osservando la massima obiettività, servendosi della critica necessaria a far luce sulle verità di questo momento.

Con tale tipo d’approccio agli eventi vogliamo stimolare una riflessione spontanea in chi ci legge, attraverso una dialettica costruttiva.

Il futuro è già arrivato, ora è il momento di affrontarlo.

(“OutNoW.it”)

Cari editori di tivù libere, il futuro è già arrivato… E fa paura!

Sembra avvicinarsi, ormai, la fatidica data del 31 dicembre, quella che indurrà i 77 editori titolari delle emittenti televisive della Campania a fare i conti con il cosiddetto switch off. La tanto blasonata, ma allo stesso tempo, fosca legge, la cui entrata in vigore è stata anticipata di tre anni e che prevede lo spegnimento di tutti i trasmettitori analogici sul territorio imponendo, così, il passaggio a quelli in digitale. Blasonata perché l’allora ministro delle Comunicazioni e iniziatore della legge, Paolo Gentiloni ne parlò a iosa. Fosca perché nel promuoverla, sono stati sottovalutati i costi che le tv che contribuiranno a questo mediatico cambio epocale, dovranno affrontare.

I numeri sono esorbitanti. Il passaggio al digitale terrestre presuppone, innanzitutto, l’istallazione di apposite apparecchiature. Queste hanno un prezzo che oscilla dai 50.000 ai 300.000 €, a seconda delle postazioni che si possiedono. Considerando che una televisione di medio livello ne ha a disposizione dalle 20 alle 40, si giunge, agevolmente, a stimare un bilancio che fa tremare i polsi. Se si fa una media numerica approssimativa, infatti, si calcola che, entro il prossimo anno, una tv libera dovrà affrontare un investimento di circa 4,5 milioni di euro.

Se tale spesa dovesse essere trascurata, circa 1500, tra giornalisti, tecnici e amministrativi, perderebbero il proprio posto di lavoro.

All’interno di questa asfissiante compagine, l’editore dell’emittente partenopea, “Napoli Tivù”, Gianna Mazzarella auspica che la pillola venga quanto meno addolcita, attraverso la proroga dei termini che si riferiscono all’entrata in vigore della legge e la promozione di incentivi volti a sostenere le imprese in una fase economica critica come quella che sta attraversando l’intero paese. A tale scopo l’editore napoletano si appella ai suoi colleghi: “E’ giunto il momento in cui bisogna unire le forze per far sentire alta e forte la nostra voce. Non possiamo soggiacere ad una imposizione che, di fatto, costringerebbe molti di noi a vendere le frequenze. Qui – continua la Mazzarella – è in ballo ben più di un adeguamento tecnologico giusto e sacrosanto, ma la voce dell’informazione locale che in un paese democratico è alla base della libertà”.

Al di là della perdita della pluralità informativa, tale misura si ripercuoterà finanche sul cittadino, che dovrà sobbarcarsi il costo del decoder per digitale terrestre, per il quale sono stati stabiliti incentivi all’acquisto solo per 12.000 famiglie, a fronte dei 5 milioni di abitanti che popolano la regione Campania.

Claudio Dominech

(“Roma”)

Monito di Don Aniello contro il Comune di Napoli

E’ un Don Aniello Manganiello a tutto campo, quello che abbiamo incontrato oggi, nel suo ufficio parrocchiale dell’istituto Don Guanella di Scampia. Il prete si è espresso in merito alle problematiche che vigono nel del suo quartiere e che dal 1996 sono rimaste irrisolte, nonostante i molteplici appelli indirizzati al Comune di Napoli.

Dall’outing del parroco, traspare tutta l’amarezza accumulata in questi anni nei quali, supportato da altri cinque sacerdoti della diocesi, ha fornito ristoro a centinaia di ragazzi, regalando loro una nuova vita. Ma allo stesso tempo vien fuori la speranza e la tenacia di un uomo che continua a credere che le condizioni di vita della sua gente possano cambiare: “Mi sono attivato sia telefonando all’Assessorato al patrimonio di Napoli, che a una sede dello IACP qui a Scampia ma, ahimé, non sono riuscito a parlare con nessun responsabile. D’altro canto – racconta il prete – anche la gente ha chiamato i vigili del fuoco più di un mese fa, ma questi non hanno fatto altro che prendere atto della situazione e indirizzarla alle autorità competenti della Municipalità e del Comune”.

Don Aniello ha preferito improntare il suo discorso sui fatti, enumerando tutti i problemi che maggiormente minano il quieto vivere dei residenti, partendo dagli edifici allagati a causa della pioggia: “Qui il problema riguarda il condotto fognario che non riesce ad assorbire l’acqua piovana. In queste zone il sistema di fognature è antichissimo e non andrebbe solo ristrutturato ma ricostruito da capo, per evitare che anche le strade diventino delle piscine”.

Il diocesano decentra poi il discorso sull’organizzazione della struttura dell’istituto Don Guanella che accoglie, ogni anno circa 280, tra bambini e ragazzi con situazioni difficili alle spalle. Si tratta di storie di droga, prostituzione, maltrattamenti, povertà estrema e quant’altro. Per i meno fortunati, i parroci del Don Guanella offrono un piatto caldo, un posto dove dormire e la disponibilità alla pratica di sport e attività ricreative di ogni genere. Anche qui, però, si annida una condizione deprecabile, la cui responsabilità si attribuire alle istituzioni locali. Come ci spiega Don Aniello attraverso i numeri: “Per ogni bambino che ospitiamo, il Comune di Napoli dovrebbe versare un contributo di 12 euro al giorno. Invece è dal 2007 che non vediamo l’ombra del denaro che ci spetta di diritto. Ad incentivare la struttura sono i privati. Tutte quelle persone che, con amore, ci aiutano ad andare avanti. Insomma – conclude il parroco – è vero che mi devo occupare anche di queste cose, però chi si dovrebbe interessare di più della vivibilità e della riqualificazione dei nostri territori è certamente il Comune.

Claudio Dominech

(“Roma”)

 

L’uomo in odore di mimosa

Il direttore


Claudio Dominech

Quella che stiamo vivendo rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale. Certo, non può dirsi ancora completa, ma la fusione interrazziale e interreligiosa promossa dai paesi industrializzati, la coabitazione di culture differenti, la libera manifestazione della sessualità e, soprattutto, Internet, la dicono lunga circa l’evoluzione cui stiamo assistendo su scala planetaria.

A questo processo di emancipazione, l’Italia non ha preso parte interamente o, sarebbe più indicato dire, ha deciso di disinteressarsi. Il riferimento non è all’ambito della comunicazione, o del multiculturalismo, oppure religioso, ma a quello che può essere interpretato come la vera icona dell’emancipazione: il rapporto uomo – donna.

A ricordarcelo è, ogni anno, la festa della donna, un’imperdibile occasione per rimarcare quanto endemico sia il bigottismo nel nostro paese; un’esibizione gratuita di esclusiva arretratezza presidiata da tutte le più importanti autorità statali; una dose massiccia di mero tradizionalismo autocelebrativo in grado, ogni volta, di spingerci un passo più indietro dalla modernizzazione (e dalla realtà).

L’8 marzo tutti, e dico tutti, manifestano la loro voglia di abbattere una disparità sessuale che esisteva decine di anni fa nel campo del sociale, nel mondo del lavoro, delle istituzioni, nei mass media. In particolare, quest’anno, la più autorevole delle nostre istituzioni, il Capo dello Stato ha detto: “La parità dei sessi è ancora lontana, è necessario incidere sulla cultura diffusa, sulla concezione del ruolo della donna, sugli squilibri persistenti e capillari nelle relazioni tra i generi su un’immagine consumistica che la riduce da soggetto a oggetto, propiziando comportamenti aggressivi che arrivano fino al delitto”.

Ma quella società ritratta da Napolitano non esiste più. Oggi ne stiamo vivendo una trasformata e ripensata per intero.

A cominciare dalle relazioni sociali in cui le donne godono di un trattamento privilegiato solo per il fatto di portare la gonna. Fenomeno, questo, che possiamo notare nella vita di tutti i giorni, per strada o nei locali pubblici.

Riguardo al mondo del lavoro dovremmo, invece, iniziare a riconoscere quanto la “presenza esteriore” giochi, di per sé, un ruolo determinante ai fini dell’accesso alla professione (in modo particolare se, dietro la scrivania, troviamo un anziano signore pronto a rivendicare la sua indefessa virilità).

Ancora, il mondo delle istituzioni, in cui le recenti vicissitudini politiche hanno rivelato (per chi non lo sapesse ancora) la maniera più rapida ed efficace per conquistare il potere…

Infine i media. Bé, in questo caso avrete notato tutti quanto sia pregnante la figura femminile nella comunicazione audiovisiva, solo per fare un esempio.

L’approvazione della normativa che prevede il 30% di donne nei consigli di amministrazione indica che le società quotate in borsa restano a conduzione maschile. E’ vero, ma parlare di disparità di genere è assolutamente spropositato. I cda sono organismi centrali per la nostra economia ma rappresentano una parte assai esigua del variegato universo culturale cui apparteniamo. Un mondo costituito da diritti, possibilità, tradizioni ma, soprattutto, da una realtà nella quale la donna si è equiparata all’uomo.

Di tutto rispetto è la riflessione riportata dall’oncologo Umberto Veronesi, sulle pagine del Corriere della Sera, riguardo la necessità di assegnare alle donne il 50% della conduzione della società intera. A mio avviso, però, il luminare dovrebbe aver notato che tale percentuale non è stata solo raggiunta, ma addirittura sorpassata!

Non sembra molto lontano il giorno in cui quelle che ancora chiamiamo “quote rosa” regaleranno mimose agli uomini.

(“OutNoW.it”)

 

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