Disoccupazione: la rivoluzione nella pancia dei giovani

E’ da giorni che, sfogliando le più importanti testate nazionali leggo di tutto fuorché quello che più ci interessa, ciò di cui abbiamo bisogno, qualcosa da cui non è possibile prescindere… il lavoro!

Stiamo preparandoci a nuove elezioni, tanto per dirne una. Ci preoccupiamo dei leader opposti del PD, del loro raffronto, dei dibattiti in televisione, dei “messaggini” che inviano alle masse, delle rispettive percentuali di consenso e addirittura di come si vestono e quali sono le loro abitudini quotidiane. Oppure di come Silvio Berlusconi intende ripensare al Partito e quali discepoli buttarci dentro…

Nel frattempo, per noi il tempo scorre velocemente ma i numeri riferiti all’occupazione restano invariati, anzi peggiorano… Quando pensiamo di occuparcene? Aspettiamo di toccare il fondo?… …Ma lo abbiamo  appena fatto.

Sì perché, stando alle stime di ottobre, l’Istat ha appena registrato 2 milioni e 870 mila disoccupati ed esiste un differenziale di circa 20 punti percentuali tra l’indice d’occupazione della fascia 20-29 anni e quella di 30-54 anni. Si tratta del livello più alto sia dall’inizio delle serie storiche mensili, gennaio 2004, sia dall’inizio delle serie trimestrali, IV trimestre 1992.

Quando parliamo di giovani, bisogna intendersi innanzitutto sull’uso della parola. Gli italiani, ad esempio, restano in famiglia sino a trent’anni e quando perdono il lavoro tornano, nel 40% dei casi a casa di mamma e papà, i famosi Peter Pan. Ma la colpa non è loro, dipende da un mercato dell’occupazione che li respinge o che, ben che vada, offre impieghi precari. I ragazzi, insomma, non possono mettere su famiglia (infatti l’attesa media prima di convivere o sposarsi è 10 anni per gli uomini e 5 per le donne) dopo la conclusione degli studi. Ricevono salari d’ingresso miserevoli. Secondo dati Echp (European Community Household Panel), il reddito medio dei giovani italiani occupati fra i 25 e i 30 anni è la metà di quello percepito dai loro coetanei inglesi, tedeschi, francesi. Ciò significa che trova lavoro solo chi ha buone relazioni: in Italia contano i parenti, non i talenti. 

Nel 2006 il Rapporto Censis sulla mobilità Sociale ha attestato che il 61% degli italiani risorse economiche e relazionali personali valgono più del merito, se vuoi farti largo nella vita. Inoltre solo il 2% reputa influenti i grandi tecnici e gli esperti, a riprova di quanto poco credito circondi il talento individuale. Nel 2008 un’altra indagine della rivista “Focus” ha registrato la santificazione delle spintarelle: le approva il 58% degli intervistati e il 41% sarebbe disposto ad appoggiare il figliolo degli amici, pur sapendo che si tratta d’un cretino. Due italiani su tre ne hanno profittato per trovare lavoro, dichiara una ricerca Eurostat del 2011 (Methods used for seeking work): il doppio rispetto alla Germania e alla Finlandia. Nelle aziende private le conoscenze dirette o indirette servono nel 72,2% dei casi, aggiunge un’indagine Unioncamere diffusa nel 2006. Mentre nel 2008 Medialab ha fissato le quote delle spintarelle: il 66,1% avviene bussando alla porta d’un parente, il 60.9% da un amico, il 33,9% da un collega di lavoro. L’ultimo dato è ancora del Censis: soltanto un italiano su 4 crede all’istruzione, i più s’affidano alla raccomandazione. Da qui l’aumento degli psicofarmaci, i 340 suicidi in più nel biennio situato tra il 2009 e il 2011 rispetto a quello precedente. 

…Ma non basta che se ne parli distrattamente “dando i numeri”, bisogna prendere un provvedimento serio, e in fretta.

La rivoluzione è nella pancia dei giovani…

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